L’ex Brefotrofio di Forlì
Il 25 settembre 1944, con l’avanzata degli Alleati, viene smobilitato il distaccamento del Reichssicherheitshauptamt (RSHA) di Forlì, che dal giugno dello stesso anno ha sede nell’ex Brefotrofio di via Salinatore 14. Questo grande edificio, inaugurato dal fascismo nel 1928, ha ospitato prima della guerra i minori non riconosciuti.
Il RSHA è l’Ufficio Centrale per la Sicurezza del Reich, fondato nel 1939, al suo interno sono accorpati la Gestapo (polizia segreta di Stato), la polizia di Stato e la Sicherheitsdienst (SD), quest’ultimo è il servizio di sicurezza delle SS. Durante l’occupazione in Italia, il RSHA ha il compito di reprimere le forze antifasciste e deportare gli ebrei nei campi di sterminio in Germania.
A capo del distaccamento di Forlì, che ha competenze anche sui territori di Pesaro e Ravenna, vi è Karl Schulz, già vice di Herbert Kappler, capo del SD operante a Roma, città dove gli uomini di Kappler si distinguono per le feroci torture compiute nella sede di via Tasso e per l’eccidio delle Fosse Ardeatine.
Il personale del SD è fortemente politicizzato e composto in gran parte da giovani provenienti da organizzazioni dell’estrema destra universitaria nazista, che durante la guerra formano il nucleo centrale della repressione del regime. Dopo la liberazione di Roma, il 4 giugno ‘44, ventitré dei sessanta membri del SD operanti nella capitale vengono trasferiti a Forlì, dove assumono il compito di gestire la repressione necessaria al completamento della Linea Gotica, rallentata dalla resistenza all’arruolamento coatto della popolazione locale e dalle azioni partigiane.
Gli agenti del SD hanno la facoltà di trattenere gli arrestati per un massimo di tre settimane. Durante la detenzione, i prigionieri vengono stipati, anche in dieci per cella, nelle tre stanzette di 11 mq situate nel piano interrato dell’ex Brefotrofio o alla Rocca di Ravaldino. I prigionieri vengono torturati e interrogati nella famigerata sala allestita nell’ex cappella dell’ex Brefotrofio.
Dal giugno al settembre 1944, il distaccamento della RSHA di Forlì conduce una brutale repressione contro le forze partigiane, compiendo impiccagioni, fucilazioni e deportazioni in Germania. Con lo sfondamento alleato della Linea Gotica, il 24 agosto, il servizio di sicurezza nel territorio di Forlì passa sotto la competenza delle truppe regolari e le SD si preparano al loro trasferimento a Bologna.
Durante queste settimane, Karl Schulz attua, in gran segreto, una “soluzione finale” locale. Il 5 settembre, dieci ebrei vengono fucilati insieme a dieci antifascisti all'aeroporto di Forlì. Il 17 settembre, nello stesso luogo, vengono uccise altre sette donne di origine ebraica. Quest’ultimo massacro è particolarmente efferato: ogni donna viene uccisa con una modalità differente, facendo ipotizzare che ognuna di loro sia stata assassinata da un agente SD diverso, intento a partecipare a un macabro rito collettivo.
Il 25 settembre, giorno della smobilitazione del reparto da Forlì, dopo una notte di festeggiamenti, gli agenti del SD fucilano gli ultimi quindici prigionieri detenuti nelle celle dell’ex Brefotrofio. Nel solo mese di settembre, il distaccamento elimina segretamente 52 persone, di cui 19 sono di origine ebraica.
La Banda Corbari
Il 18 agosto del 1944 i cadaveri dei partigiani Silvio Corbari, Adriano Casadei, Arturo Spazzoli e Iris Versari vengono appesi a un lampione di piazza Saffi a Forlì. Questa macabra esposizione è fortemente voluta dalle autorità fasciste per sfatare la leggendaria inafferrabilità della banda Corbari. Tuttavia, la leggenda assume una nuova forma poiché il volto di uno dei cadaveri, quello di Iris Versari, è rivolto in alto «in atto di sfida contro chi guarda», scrive Mambelli nei suoi diari.
Iris Versari, domestica e figlia di mezzadri, entra nella Resistenza subito dopo l’8 settembre, unendosi a un gruppo di partigiani attivo nell’area appenninica nei pressi di Tredozio, dove risiede la sua famiglia. Questo gruppo, ritenuto inefficiente dal CLN faentino, viene riorganizzato con l’arrivo di Silvio Corbari, già noto per le sue audaci azioni contro i fascisti, tra cui vari assalti alle caserme repubblichine, compiuto con un camion e delle divise trafugate a dei militi.
Nel dicembre del 1943, Corbari giunge a Tredozio e prende il controllo della banda eliminandone il capo; qui conosce Iris Versari e tra i due inizia una relazione sentimentale. La banda compie la sua prima azione il 9 gennaio, assaltando la caserma dei carabinieri di Tredozio e occupando il paese per undici giorni. Durante questo periodo, vengono redistribuiti i soldi del banco locale tra i poveri.
Il 20 gennaio i fascisti sorprendono e catturano 20 partigiani, altri 3 vengono uccisi durante il combattimento. Il 5 aprile, nel forte San Leonardo di Verona, per rappresaglia, vengono fucilati 7 dei 20 catturati. Anche i genitori della Versari cadono vittima della repressione; solo la madre fa ritorno dai campi di prigionia tedeschi.
Dopo lo sbandamento, la banda si ricostituisce lentamente, non superando mai i 50 effettivi, poiché Corbari, più che creare una robusta formazione militare, predilige le azioni individuali ed eclatanti.
Tra queste, la più importante è quella del 23 maggio, quando Corbari e la Versari si consegnano spontaneamente al console fascista Marabini, in risposta a un bando in cui Mussolini concede la grazia ai partigiani che si arrendono. Marabini li fa salire sulla sua auto e durante il viaggio verso Predappio la Versari gli spara un colpo di pistola alla testa.
La banda Corbari non ha una chiara connotazione politica: il suo capo, recalcitrante a ogni autorità, si rifiuta di inserire nella formazione un commissario politico e opera spesso in autonomia dal CLN. Ciò complica i rapporti con le altre formazioni partigiane della zona, mediati dall’opera moderatrice di Adriano Casadei, effettivo capo militare della banda.
Nell’estate del 1944, la relazione tra la Versari e Corbari entra in crisi, poiché il capobanda fa arrivare sui monti la moglie, sfollata da Faenza. Il 14 agosto, secondo la biografa di Iris Versari, Sandra Bellini, Iris si ferisce volutamente alla gamba sinistra per far tornare Corbari a Ca’ Cornio, dove giungono anche Spazzoli e Casadei.
La mattina del 18 agosto, un gruppo di nazifascisti, guidato da un delatore, arriva al casolare.
La Versari è impossibilitata a fuggire a causa della ferita e Corbari non vuole abbandonarla. La partigiana, a questo punto, uccide il primo nazista che si affaccia alla porta della sua stanza e poi si suicida, così da far scappare il compagno. Nella fuga, Corbari si ferisce gravemente alla testa e Casadei, pur potendo mettersi in salvo, torna indietro per assisterlo. Corbari e Casadei vengono catturati e impiccati a Castrocaro, poi i loro cadaveri e quelli di Iris Versari e Arturo Spazzoli vengono esposti nella piazza principale di Forlì, dove rimangono per un giorno intero sorvegliati da 18 agenti.
L’8ª Brigata Garibaldi si prepara alla Liberazione
Il 10 settembre del 1944 si riuniscono i vertici dell’8ª Brigata Garibaldi e i rappresentanti del CLN provinciale a Pieve di Rivoschio per organizzarne la discesa dalle montagne delle forze partigiane. La liberazione del territorio forlivese sembra ormai imminente: due settimane prima gli alleati hanno sfondato la Linea Gotica e il 5 settembre hanno conquistato la zona del Monte della Verna, a sud delle posizioni della Brigata.
Quindi, il 6 settembre, Ilario Tabarri, comandante dell’8ª Brigata Garibaldi, chiede a Primo Della Cava, ufficiale di collegamento del CUMER, quali siano le disposizioni per l’arrivo degli alleati, tenuto conto che, a causa della scarsità di munizioni, sarebbe impossibile attuare «una resistenza prolungata» da parte dei partigiani. Nella lettera, il comandante informa di aver già previsto il concentramento di tutte le forze della Brigata nella zona tra Spinello e Pieve di Rivoschio, che si attuerà «in 48 ore (…) con l’avvicinarsi del fronte».
Il giorno stesso, Primo Della Cava risponde che, data la situazione, bisogna concentrare tutte le forze su un unico obiettivo: Forlì. Inoltre, propone di vedersi il prima possibile per organizzare al meglio l’operazione. Tabarri, il giorno successivo, risponde di essere pienamente d'accordo e insiste sull’impellenza di riuscire a muoversi più velocemente degli alleati al momento dell’imminente ritirata nazifascista. Sempre lo stesso giorno, Tabarri scrive anche al comandante della Zona II, che è quella più vicina al fronte, raccomandandogli di non farsi distrarre dalla possibilità della discesa, che non è ancora sicura, ma di continuare a seguire attentamente gli spostamenti del nemico, al fine di non farsi tagliare la via verso la pianura.
Il 10 settembre avviene l’incontro a Pieve di Rivoschio, in cui vengono stimate le forze dei resistenti: 550 partigiani in montagna e 500 uomini in città tra SAP e GAP. Con poche munizioni, questi elementi, in una situazione di guerriglia, potrebbero non essere un problema, ma in un contesto di occupazione e mantenimento delle posizioni lo diventano. Inoltre, viene considerato che la situazione della Resistenza a Cesena è disastrosa a causa della repressione compiuta dalle forze nazifasciste negli ultimi mesi. Visti questi presupposti, viene deciso di puntare tutte le proprie energie sulla presa di Forlì, da effettuare nel momento esatto in cui le retroguardie tedesche saranno più deboli.
Nei giorni successivi, però, giungono le disposizioni del CUMER, inviate l’8 settembre, nelle quali si ordina di liberare sia Forlì sia Cesena. Il CUMER è sicuro della possibilità di una sommossa popolare in tutta la provincia, situazione che invece i vertici della Brigata non considerano plausibile.
Il 18 settembre, Tabarri scrive a Della Cava informandolo di aver ricevuto le disposizioni, che sono completamente divergenti da quelle decise nella riunione di Pieve di Rivoschio. Non abbiamo la risposta di Della Cava, ma lo stesso giorno Tabarri risponde al CUMER spiegando il piano stilato dalla Brigata, annotando però che eseguirà i nuovi ordini mandando 120 uomini a Cesena.
Il giorno successivo il comando dell’8ª Brigata invia una lettera a tutti i battaglioni chiedendo ai partigiani di prepararsi «militarmente e psicologicamente» per la lotta conclusiva, dove bisogna dimostrare davvero di essere «i migliori figli di questo popolo». Per far ciò serve armarsi di «coraggio, decisione nei movimenti, fermezza di carattere, spirito di sacrificio e disciplina».
La banda Garaffoni
Il 14 ottobre 1944, il segretario del fascio di Cesena, Guido Garaffoni, lascia la città insieme ai suoi militi più fedeli. Nei mesi precedenti, il gruppo si è distinto per l'efferata repressione ai danni dei resistenti. Questo gruppo, operante con il beneplacito dell’esercito tedesco, si è arricchito svolgendo attività criminose, fatto che porta la popolazione locale a rinominarlo “banda Garaffoni”.
Persino le autorità della Repubblica Sociale Italiana avviano un’inchiesta nei confronti di Garaffoni e dei suoi uomini, accusati da alcuni fascisti locali di vessazioni e di essersi imposti alle elezioni per la segreteria del fascio cittadino utilizzando «i sistemi più vieti, quali il trasporto di elettori in camion, l’offerta di vino, ecc.». Nell’ambito dell’inchiesta, Garaffoni viene descritto come un uomo violento, arricchitosi tramite lo sfruttamento della prostituzione, le scommesse e la frode.
Cesena ha una forte presenza antifascista: la città vanta il più alto numero di condannati dal Tribunale speciale dell’intera provincia. Inoltre, già un anno dopo lo scoppio della guerra, con il fascismo ancora saldamente al potere, si registra uno dei primi scioperi italiani, quello dell’Arrigoni, dove lavorano 4.500 operaie.
Il Partito Comunista è particolarmente radicato in città e, la sera del 24 dicembre 1943, a soli quattro giorni dall’elezione di Garaffoni, decreta il passaggio alla lotta armata. Quella sera, un gappista rimasto ignoto uccide con un colpo di revolver il fascista soprannominato “Minion”, membro della “banda Garaffoni” e portinaio della fabbrica Arrigoni, dove è malvisto dalle operaie. Durante la fuga, il gappista uccide anche un altro milite fascista. Garaffoni risponde immediatamente ordinando un rastrellamento la notte successiva, durante il quale viene ucciso il vecchio socialista Eugenio Magnani.
Da quel momento inizia un duro scontro tra i fascisti e i partigiani cesenati.
I resistenti si distinguono per una serie di operazioni eclatanti, come quella compiuta la notte dell’8 febbraio 1944, quando un commando di otto gappisti assalta il carcere di Cesena, liberando il comunista Ezio Casadei e giustiziando il direttore della prigione, accusato di averlo torturato. Sempre i gappisti, il 2 aprile, infliggono una vera e propria umiliazione alla “banda” assaltando il caseificio di San Giorgio, di proprietà del vicesegretario del fascio di Cesena, Moreschini, e rubando quintali di formaggio destinati agli squadristi per Pasqua.
La “banda Garaffoni” opera in stretto contatto con le forze tedesche, partecipando attivamente al grande rastrellamento appenninico dell’aprile 1944, durante il quale vengono perpetrate violenze e stragi contro le forze partigiane e la popolazione civile. Particolarmente efferata è l’uccisione del diciassettenne Gino Fusconi, fratello minore di due dirigenti comunisti, seviziato a pugnalate e poi ucciso a colpi di mitra.
Durante l’estate, Garaffoni intensifica la propria opera repressiva, tanto che a settembre il movimento resistenziale cittadino attraversa una profonda crisi organizzativa, ottenendo per questo il plauso del generale tedesco Von Heygendorff.
Poco prima della liberazione di Cesena, Garaffoni fugge con i suoi uomini nel Vicentino, dove continua a operare. Dopo la Liberazione, viene arrestato a Thiers e prelevato da alcuni partigiani cesenati per essere processato in città, ma viene giustiziato lungo il tragitto.
La strage di Vecchiazzano
Cesena fu liberata dai partigiani e dalle truppe canadesi dell'VIIIª armata il 20 ottobre. Due giorni dopo, 22 ottobre, alle truppe tedesche fu ordinato di ritirarsi dietro il fiume Ronco e, tre giorni dopo, 25 ottobre, il nuovo schieramento tedesco fu attaccato dalle truppe alleate. Nella zona di Meldola, dieci chilometri da Forlì, la 10ª divisione indiana riuscì a stabilire una testa di ponte nel settore difeso dalla 356ª divisione tedesca, costringendola a ritirarsi dietro al fiume Rabbi. Ed è in questo contesto, che il 27 ottobre, una trentina di soldati della 2ª compagnia dell'870° reggimento della 356ª divisione granatieri, comandati dal sottotenente Alois Brandl e dal sergente Ott, si acquartierò nella casa di Giulio Verità, a Vecchiazzano, a cinque chilometri da Forlì. Il 2 novembre Brandl ordinò alla famiglia Verità di allontanarsi e questa trovò ospitalità nella vicina casa La Merlina abitata dalla famiglia Benedetti. Il 7 novembre le operazioni militari ripresero su tutta l'area del fronte. Verso le ore 11, la casa Verità fu centrata da una bomba e diversi soldati tedeschi rimasero uccisi, sepolti sotto le macerie. Secondo l'inchiesta svolta nel gennaio 1945 dai sergenti Edmondson e Vickers, della 78 sezione del Sib (Squadra investigativa speciale), al tenente Brandl fu ordinato dal comando di battaglione di trasferirsi con i superstiti, circa una ventina, nella vicina casa La Merlina, per stabilirvi il nuovo quartier generale della compagnia. Nella casa erano presenti 15, fra donne e bambini, e nove uomini. A questi ultimi fu ordinato di mettere sacchi di sabbia attorno alla casa. Brandl, secondo quanto da lui raccontato dopo la sua cattura al tenente colonnello W. Heddon del Sib inglese, telefonò al comando del battaglione, comandato dal capitano Köppen, per sapere cosa fare dei civili. Gli fu risposto di far allontanare le donne e i bambini, cosa che egli fece. Gli uomini, invece, per ordine del comando di reggimento, retto dal maggiore Haars, dovevano essere uccisi. Trascinati presso il pozzo a circa 200 metri della casa, un plotone formato, oltre che dal sottotenente Brandl, dai sergenti Ott e Dietrich e da un caporale di nome Maik, li uccise con un colpo di pistola alla nuca e gettò i loro corpi nel pozzo.
Le donne e i bambini, lasciata la casa, l'8 novembre si rifugiarono nell'abitazione di Armando Mengozzi più vicina alle linee inglesi e lì attesero l'arrivo delle truppe liberatrici, che giunsero alle 4 del mattino del 9 novembre. Rientrate a casa, non trovarono gli uomini. Verso le 10 del mattino Elia Verità scorse tracce di sangue e vide che anche l'acqua del pozzo era rossastra. Con l'aiuto di alcuni vicini furono riportati in superfice i corpi di Francesco Benedetti anni 17, Romano Benedetti di anni 21, Leopoldo Benedetti anni 37, Antonio Benedetti anni 46, Giuseppe Benedetti anni 73, Giulio Verità anni 44, Luigi Fregnani anni 75, Pasquale Benedetti anni 43 e Alfredo Lodolini di anni 31. Fin dalle 6,30 del mattino a La Merlina era presente un plotone della compagnia "C" del 6° battaglione del reggimento Lincolnshire della 46ª divisione di fanteria britannica e più volte, soldati e ufficiali si recarono nei pressi del pozzo e fecero intervenire i militari del AFPU (Army Film and Photographic Unit), che fotografarono i corpi recuperati e allineati vicino al pozzo. Per gli inquirenti del Sib quello perpetrato da Brandl e dai suoi uomini fu un orrendo crimine commesso per vendicare i loro commilitoni morti sotto le macerie della casa Verità.
La mancata liberazione partigiana di Forlì
Il 26 settembre del 1944 avvenne il primo incontro tra l’8a brigata Garibaldi Romagna e le truppe alleate presso San Piero in Bagno, paese appenninico che era stato appena liberato dai partigiani. Il comandante della brigata Pietro Tabarri, per facilitare l’avanzata delle truppe alleate, aveva previsto di liberare anche Sarsina e Santa Sofia. Dove, però, i resistenti non erano riusciti ad adattarsi alla nuova situazione strategica, che li vedeva difendere un abitato casa per casa, e vennero respinti dalla pronta reazione nazista. Questo fallimento mise la brigata in grande difficoltà operativa, le proprie forze venivano separate dall’avanzamento della linea del fronte. Inoltre, i tedeschi, per liberare le proprie retrovie attaccarono le zona di Pieve di Rivoschio tentando di accerchiare i partigiani, che però riuscirono a vanificare il piano nazista con un pronto attacco diretto. Per mantenere unita ed efficiente la parte della brigata che si trovava in territorio alleato, venne costituito un comando provvisorio a San Piero in Bagno guidato da Bruno Vailati, conosciuto dagli alleati poiché nell’autunno ‘43 era riuscito a far scappare dal territorio nemico tre ufficiali britannici. Dopo questa missione, il Vailati, venne addestrato dai servizi segreti statunitensi e rimandato nel forlivese per insegnare ai partigiani romagnoli l’arte della guerriglia e l'uso degli esplosivi. Nonostante la sua presenza, gli alleati erano diffidenti nei confronti dell’8a brigata, poiché non la consideravano alla stregua di un esercito regolare e ne avversavano l’indirizzo politico. Di fatto l’ufficiale di collegamento britannico era il bosniaco Monte Radlovic, il quale dopo la guerra paleserà un acceso anticomunismo. Inoltre, l’8a brigata venne affiancata al 2° corpo polacco, molti dei suoi componenti provenivano dai gulag sovietici. Nonostante tali difficili premesse, la brigata forlivese dimostrò di non essere una semplice “banda partigiana”, ma di essere una robusta formazione militare ben addestrata, numericamente rilevante, e composta da uomini che conoscevano perfettamente il territorio, quindi fu inserita nel dispositivo militare alleato e gli venne riconosciuta l’autonomia operativa.
Il 25 ottobre i partigiani liberavano Meldola, a 10 km a sud da Forlì, mentre i britannici non avevano ancora valicato il fiume Ronco: per i resistenti si palesava la possibilità di liberare il capoluogo. Così, la notte del primo novembre, in accordo con gli alleati, i partigiani raggiunsero Bussecchio alla periferia di Forlì, pronti ad attaccare con il supporto dei Gap e delle Sap locali. All’ultimo però, gli alleati bloccarono l'operazione non facendo giungere le munizioni promesse ai resistenti, che si ritrovarono isolati sotto il fuoco dell’artiglieria tedesca. Gli alleati motivarono la loro decisione con il fatto che non si voleva far rischiare ai partigiani un'impresa così pericolosa a liberazione imminente. Mentre per i partigiani il contrordine fu frutto di una chiara volontà politica, atta a sottrargli l’alto valore simbolico di liberare la “città della giovinezza di Mussolini”. L’amarezza dei partigiani forlivesi fu enorme e alla fine di quel mese un manifesto dell’Anpi di Galeata commentava la liberazione di Forlì, avvenuta il 9 novembre, con queste parole: I partigiani non erano presenti in quella magnifica giornata. I partigiani erano ritornati sui loro monti”.
L’assalto al carcere di Forlì
La mattina del 4 ottobre 1944 si riuniva il comando della 29a brigata Gap di Forlì per organizzare l’evasione di 32 detenuti politici imprigionati nella Rocca di Ravaldino. Il Cumer (Comando Unico Militare Emilia Romagna) aveva informato i gappisti di una serie di stragi commesse dai nazisti nel bolognese e chiedeva di impedirne altre. I Gap (Gruppi Armati Patriottici) erano stati formati dal Partito Comunista nell’aprile del ‘43 per stimolare nel paese la resistenza contro l’occupante. Con azioni come quella avvenuta a Forlì il 10 febbraio del 1944 quando i gappisti uccisero il federale fascista Arturo Capanni, provocando una dura reazione delle autorità: divieto di circolare in bicicletta per la città e dieci antifascisti deferiti al tribunale per essere fucilati. Al divieto e al deferimento gli operai risposero con uno sciopero generale di tre giorni costringendo le autorità a ritirare entrambi i provvedimenti; questa presa di forza fu da stimolo per gli scioperi delle operaie forlivesi del marzo ‘44. L’allargamento del fronte antifascista vide i gappisti forlivesi passare dagli iniziali 13 militanti ai 380 dell’estate ‘44. In quest’ultima fase della guerra la 29a brigata Gap si attivò per impedire la repressione nazifascista, il 2 agosto dieci gappisti irruppero nella rimessa della SITA distruggendo una decina di automezzi che avrebbero dovuto deportare operai e prigionieri politici in Germania. Davanti all'avanzata alleata di quell’estate il Partito comunista formava le Sap (Squadre di Azione Patriottica) per difendere il comparto produttivo del paese, oggetto di devastazioni dai nazifascisti. L'assalto alle carceri di Forlì venne attuato congiuntamente da 9 gappisti e 4 sappisti e fu organizzato grazie alla cartina disegnata da Luciano Lama (capo di Stato Maggiore dei Gap) che era riuscito a visitare il carcere nella mattinata del 4 ottobre grazie a delle conoscenze personali. All’una e trenta il gruppo di assalto si avviava in fila indiana verso il carcere percorrendo in bicicletta via dell’Appennino, in testa vi era Irma Vasumini pronta ad avvisare gli altri di un possibile posto di blocco. Arrivati al carcere due gappisti vestiti da militi e uno in abiti borghesi si presentavano al portone di ingresso, i finti fascisti mostravano un foglio con l’intestazione della questura affermando di aver arrestato un capo partigiano. Le guardie che aprirono il portone vennero prontamente disarmate dai tre che estrassero le rivoltelle e fecero entrare il resto del gruppo in portineria, con Irma Vasumini rimasta in strada a fare da palo. I gappisti utilizzarono lo stesso espediente per accedere all’edificio dei detenuti politici e alla sezione dove si trovavano le celle e lì intimarono al brigadiere di servizio di liberare i 29 prigionieri politici i quali, dopo un iniziale esitazione, scapparono verso l’uscita esultando, mentre altre tre detenute venivano fatte uscire dalla sezione femminile. L’operazione pareva essere filata liscia finchè all’ingresso si presentò una guardia della milizia, che mentre veniva disarmata riconobbe il capo dei sappisti Galio Rossi. Si decise così di rinchiudere il fascista insieme alle altre guardie, minacciandolo di ripercussioni in caso di soffiate. Due giorni dopo la Questura di Forlì diramò un manifesto in cui denunciava alcuni “sconsigliati” di aver provocato “la liberazione di massa” di pericolosi criminali e detenuti politici, che secondo le autorità sarebbero stati scarcerati di lì a poco. Con questo proclama si voleva ridimensionare l’azione gappista e sappista che era riuscita a liberare 32 prigionieri politici senza sparare un colpo e scongiurando una possibile strage.
La liberazione di Forlì
Il 25 agosto del 1944 le truppe alleate sfondano la Linea Gotica, scatta l’operazione Olive che avrebbe dovuto costringere l’esercito tedesco a ritirarsi oltre il fiume Po.
L’operazione non riesce, la linea gotica viene infranta, ma la Romagna non viene liberata.
Gli alleati avanzano lentamente e solo il 25 ottobre giungono lungo la riva orientale del fiume Ronco a cinque chilometri dal centro cittadino. La città è presidiata dalla 278° Divisione tedesca guidata dal generale Hoppe, che ha ricevuto da Hitler l’ordine di
difendere ad oltranza “la città della giovinezza del Duce”. Oltre alla tenace difesa nazista, gli alleati devono fare i conti con il clima inclemente di quelle fredde giornate di ottobre e novembre. Le piogge incessanti ingrossano il fiume Ronco, rendendo impossibile il mantenimento ed il rifornimento di teste di ponte stabili. Vari tentativi in tal senso causano la morte di decine di soldati e la cattura di altri duecentoquarantasei. Solo il 29 ottobre un battaglione indiano riesce a liberare la parte meridionale del fiume nei pressi di Meldola, mentre a nord i britannici valicano stabilmente il Ronco il 3 novembre.
Intanto, l’8a brigata Garibaldi, unitamente alle truppe alleate, discende le montagne e muovono verso Forlì per liberarla. Al momento dell’azione, che secondo gli accordi presi con
gli alleati si sarebbe dovuta svolgere il 2 novembre, i comandi britannici non forniscono le munizioni alle forze partigiane giunte a Bussecchio alla periferia della città e alle quali viene intimato di rientrare a Meldola. Un ordine che mostra una chiara volontà politica atta ad impedire alle forze garibaldine di liberare la città di Mussolini.
Gli alleati si trovano ormai nei pressi dell’aeroporto di Forlì, ma l’incessante pioggia non permette di attaccare il nemico fino a quando, il 7 novembre, il clima si placa e i 120
bombardieri britannici possono prendere il volo e colpire le postazioni avversarie. Il massiccio bombardamento alleato non fa retrocedere i tedeschi, che resistono fino alla sera dell’8 novembre quando Hoppe riceve l’ordine di abbandonare Forlì. Infatti, il servizio spionistico nazista ha ricevuto informazioni su una possibile insurrezione cittadina fomentata e armata dai partigiani locali. Nelle prime ore del 9 novembre, mentre le
forze tedesche si ritirano, dopo aver fatto saltare in aria la torre civica, il campanile del duomo, e le strutture che garantiscono il rifornimento di gas e acqua, i Gap cittadini occupano i più importanti luoghi pubblici ed affiggono per le strade manifesti coi quali informano la cittadinanza che il C.L.N locale ha nominato sindaco Franco Agosto (operaio, comunista e simbolo dell’antifascismo forlivese). Anche gli Alleati entrano a
Forlì, l’accoglienza che ricevono, secondo le fonti, è controversa. Infatti, mentre Antonio Mambelli, cronista forlivese, scrive che l’esultanza cittadinanza è “d’uno spettacolo che solo
Roma aveva offerto” l’agenzia stampa Reuters, invece, commenta “In nessun’altra città d’Italia… vi è stato un benvenuto alle forze di liberazione meno entusiastico di quello di Forlì
(...) Forlì è sempre stato un bastione del fascismo”. I festeggiamenti a Forlì ci sono, ma in maniera contenuta ed i motivi non sono quelli riportati dall’agenzia stampa britannica: la
città era stata evacuata, bombardata da più di un mese dall’artiglieria inglese ed ora è sotto il tiro dei mortai tedeschi che, quella mattina, producono un morto fra i partigiani e vari feriti.
Infatti, il generale Hoppe, la sera del 9 novembre, riceve il contrordine da Hitler di resistere, il Führer è rimasto molto contrariato dal fatto che “la città della giovinezza del
Duce” fosse stata abbandonata così facilmente al nemico. Sempre in quella giornata, intanto, Hoppe prende posizione a nord della città e difende il fiume Montone, come prescritto
dagli ordini ricevuti dal Führer resiste per cinque giorni, per poi ritirarsi imbattuto dal forlivese.