L’assalto al carcere di Forlì
La mattina del 4 ottobre 1944 si riuniva il comando della 29a brigata Gap di Forlì per organizzare l’evasione di 32 detenuti politici imprigionati nella Rocca di Ravaldino. Il Cumer (Comando Unico Militare Emilia Romagna) aveva informato i gappisti di una serie di stragi commesse dai nazisti nel bolognese e chiedeva di impedirne altre. I Gap (Gruppi Armati Patriottici) erano stati formati dal Partito Comunista nell’aprile del ‘43 per stimolare nel paese la resistenza contro l’occupante. Con azioni come quella avvenuta a Forlì il 10 febbraio del 1944 quando i gappisti uccisero il federale fascista Arturo Capanni, provocando una dura reazione delle autorità: divieto di circolare in bicicletta per la città e dieci antifascisti deferiti al tribunale per essere fucilati. Al divieto e al deferimento gli operai risposero con uno sciopero generale di tre giorni costringendo le autorità a ritirare entrambi i provvedimenti; questa presa di forza fu da stimolo per gli scioperi delle operaie forlivesi del marzo ‘44. L’allargamento del fronte antifascista vide i gappisti forlivesi passare dagli iniziali 13 militanti ai 380 dell’estate ‘44. In quest’ultima fase della guerra la 29a brigata Gap si attivò per impedire la repressione nazifascista, il 2 agosto dieci gappisti irruppero nella rimessa della SITA distruggendo una decina di automezzi che avrebbero dovuto deportare operai e prigionieri politici in Germania. Davanti all’avanzata alleata di quell’estate il Partito comunista formava le Sap (Squadre di Azione Patriottica) per difendere il comparto produttivo del paese, oggetto di devastazioni dai nazifascisti. L’assalto alle carceri di Forlì venne attuato congiuntamente da 9 gappisti e 4 sappisti e fu organizzato grazie alla cartina disegnata da Luciano Lama (capo di Stato Maggiore dei Gap) che era riuscito a visitare il carcere nella mattinata del 4 ottobre grazie a delle conoscenze personali. All’una e trenta il gruppo di assalto si avviava in fila indiana verso il carcere percorrendo in bicicletta via dell’Appennino, in testa vi era Irma Vasumini pronta ad avvisare gli altri di un possibile posto di blocco. Arrivati al carcere due gappisti vestiti da militi e uno in abiti borghesi si presentavano al portone di ingresso, i finti fascisti mostravano un foglio con l’intestazione della questura affermando di aver arrestato un capo partigiano. Le guardie che aprirono il portone vennero prontamente disarmate dai tre che estrassero le rivoltelle e fecero entrare il resto del gruppo in portineria, con Irma Vasumini rimasta in strada a fare da palo. I gappisti utilizzarono lo stesso espediente per accedere all’edificio dei detenuti politici e alla sezione dove si trovavano le celle e lì intimarono al brigadiere di servizio di liberare i 29 prigionieri politici i quali, dopo un iniziale esitazione, scapparono verso l’uscita esultando, mentre altre tre detenute venivano fatte uscire dalla sezione femminile. L’operazione pareva essere filata liscia finchè all’ingresso si presentò una guardia della milizia, che mentre veniva disarmata riconobbe il capo dei sappisti Galio Rossi. Si decise così di rinchiudere il fascista insieme alle altre guardie, minacciandolo di ripercussioni in caso di soffiate. Due giorni dopo la Questura di Forlì diramò un manifesto in cui denunciava alcuni “sconsigliati” di aver provocato “la liberazione di massa” di pericolosi criminali e detenuti politici, che secondo le autorità sarebbero stati scarcerati di lì a poco. Con questo proclama si voleva ridimensionare l’azione gappista e sappista che era riuscita a liberare 32 prigionieri politici senza sparare un colpo e scongiurando una possibile strage.
A cura di
Istituto storico della resistenza e dell’età contemporanea di Forlì Cesena, Peter Kleckner