La mancata liberazione partigiana di Forlì

Il 26 settembre del 1944 avvenne il primo incontro tra l’8a brigata Garibaldi Romagna e le truppe alleate presso San Piero in Bagno, paese appenninico che era stato appena liberato dai partigiani. Il comandante della brigata Pietro Tabarri, per facilitare l’avanzata delle truppe alleate, aveva previsto di liberare anche Sarsina e Santa Sofia. Dove, però, i resistenti non erano riusciti ad adattarsi alla nuova situazione strategica, che li vedeva difendere un abitato casa per casa, e vennero respinti dalla pronta reazione nazista. Questo fallimento mise la brigata in grande difficoltà operativa, le proprie forze venivano separate dall’avanzamento della linea del fronte. Inoltre, i tedeschi, per liberare le proprie retrovie attaccarono le zona di Pieve di Rivoschio tentando di accerchiare i partigiani, che però riuscirono a vanificare il piano nazista con un pronto attacco diretto. Per mantenere unita ed efficiente la parte della brigata che si trovava in territorio alleato, venne costituito un comando provvisorio a San Piero in Bagno guidato da Bruno Vailati, conosciuto dagli alleati poiché nell’autunno ‘43 era riuscito a far scappare dal territorio nemico tre ufficiali britannici. Dopo questa missione, il Vailati, venne addestrato dai servizi segreti statunitensi e rimandato nel forlivese per insegnare ai partigiani romagnoli l’arte della guerriglia e l’uso degli esplosivi. Nonostante la sua presenza, gli alleati erano diffidenti nei confronti dell’8a brigata, poiché non la consideravano alla stregua di un esercito regolare e ne avversavano l’indirizzo politico. Di fatto l’ufficiale di collegamento britannico era il bosniaco Monte Radlovic, il quale dopo la guerra paleserà un acceso anticomunismo. Inoltre, l’8a brigata venne affiancata al 2° corpo polacco, molti dei suoi componenti provenivano dai gulag sovietici. Nonostante tali difficili premesse, la brigata forlivese dimostrò di non essere una semplice “banda partigiana”, ma di essere una robusta formazione militare ben addestrata, numericamente rilevante, e composta da uomini che conoscevano perfettamente il territorio, quindi fu inserita nel dispositivo militare alleato e gli venne riconosciuta l’autonomia operativa.
Il 25 ottobre i partigiani liberavano Meldola, a 10 km a sud da Forlì, mentre i britannici non avevano ancora valicato il fiume Ronco: per i resistenti si palesava la possibilità di liberare il capoluogo. Così, la notte del primo novembre, in accordo con gli alleati, i partigiani raggiunsero Bussecchio alla periferia di Forlì, pronti ad attaccare con il supporto dei Gap e delle Sap locali. All’ultimo però, gli alleati bloccarono l’operazione non facendo giungere le munizioni promesse ai resistenti, che si ritrovarono isolati sotto il fuoco dell’artiglieria tedesca. Gli alleati motivarono la loro decisione con il fatto che non si voleva far rischiare ai partigiani un’impresa così pericolosa a liberazione imminente. Mentre per i partigiani il contrordine fu frutto di una chiara volontà politica, atta a sottrargli l’alto valore simbolico di liberare la “città della giovinezza di Mussolini”. L’amarezza dei partigiani forlivesi fu enorme e alla fine di quel mese un manifesto dell’Anpi di Galeata commentava la liberazione di Forlì, avvenuta il 9 novembre, con queste parole: I partigiani non erano presenti in quella magnifica giornata. I partigiani erano ritornati sui loro monti”.


A cura di

Peter Kleckner
Istituto storico della resistenza e dell’età contemporanea di Forlì Cesena

Data dell'evento

Da Martedì, 26 Settembre 1944 a Mercoledì, 1 Novembre 1944

Luogo dell'Evento


Bussecchio, Forlì

Risorse multimediali